Parliamone aderisce campagna di Valigia Blu per un post a reti unificate contro la norma ammazzablog. Quindi leggetevi con attenzione tutto ciò e se potete diffondetelo.. E diffondete, dai!!
Cosa prevede il comma 29 del ddl di riforma delle intercettazioni, sinteticamente definito comma ammazzablog?
Il comma 29 estende l’istituto della rettifica, previsto dalla legge sulla stampa, a tutti i “siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica”, e quindi potenzialmente a tutta la rete, fermo restando la necessità di chiarire meglio cosa si deve intendere per “sito” in sede di attuazione.
Cosa è la rettifica?
La rettifica è un istituto previsto per i giornali e le televisione, introdotto al fine di difendere i cittadini dallo strapotere di questi media e bilanciare le posizioni in gioco, in quanto nell’ipotesi di pubblicazione di immagini o di notizie in qualche modo ritenute dai cittadini lesive della loro dignità o contrarie a verità, questi potrebbero avere non poche difficoltà nell’ottenere la “correzione” di quelle notizie. La rettifica, quindi, obbliga i responsabili dei giornali a pubblicare gratuitamente le correzioni dei soggetti che si ritengono lesi.
Quali sono i termini per la pubblicazione della rettifica, e quali le conseguenze in caso di non pubblicazione?
La norma prevede che la rettifica vada pubblicata entro due giorni dalla richiesta (non dalla ricezione), e la richiesta può essere inviata con qualsiasi mezzo, anche una semplice mail. La pubblicazione deve avvenire con “le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”, ma ad essa non possono essere aggiunti commenti. Nel caso di mancata pubblicazione nei termini scatta una sanzione fino a 12.500 euro. Il gestore del sito non può giustificare la mancata pubblicazione sostenendo di essere stato in vacanza o lontano dal blog per più di due giorni, non sono infatti previste esimenti per la mancata pubblicazione, al massimo si potrà impugnare la multa dinanzi ad un giudice dovendo però dimostrare la sussistenza di una situazione sopravvenuta non imputabile al gestore del sito.
Se io scrivo sul mio blog “Tizio è un ladro”, sono soggetto a rettifica anche se ho documentato il fatto, ad esempio con una sentenza di condanna per furto?
La rettifica prevista per i siti informatici è quella della legge sulla stampa, per la quale sono soggetti a rettifica tutte le informazioni, atti, pensieri ed affermazioni ritenute dai soggetti citati nella notizia “lesivi della loro dignità o contrari a verità”. Ciò vuol dire che il giudizio sulla assoggettabilità delle informazioni alla rettifica è esclusivamente demandato alla persona citata nella notizia, è quindi un criterio puramente soggettivo, ed è del tutto indifferente alla veridicità o meno della notizia pubblicata.
Posso chiedere la rettifica per notizie pubblicate da un sito che ritengo palesemente false?
E’ possibile chiedere la rettifica solo per le notizie riguardanti la propria persona, non per fatti riguardanti altri.
Chi è il soggetto obbligato a pubblicare la rettifica?
La rettifica nasce in relazione alla stampa o ai telegiornali, per i quali esiste sempre un direttore responsabile. Per i siti informatici non esiste una figura canonizzata di responsabile, per cui allo stato non è dato sapere chi sarà il soggetto obbligato alla rettifica. Si può ipotizzare che l’obbligo sia a carico del gestore del blog, o più probabilmente che debba stabilirsi caso per caso.
Sono soggetti a rettifica anche i commenti?
Un commento non è tecnicamente un sito informatico, inoltre il commento è opera di un terzo rispetto all’estensore della notizia, per cui sorgerebbe anche il problema della possibilità di comunicare col commentatore. A meno di non voler assoggettare il gestore del sito ad una responsabilità oggettiva relativamente a scritti altrui, probabilmente il commento (e contenuti similari) non dovrebbe essere soggetto a rettifica.
giovedì 29 settembre 2011
sabato 17 settembre 2011
Immigrati clandestini
Ammetto che è stata leggerezza da parte nostra.
Quando siamo partiti per le Canarie, pur sapendo di doverci restare quattro mesi, non ci siamo granché preoccupati di burocrazia e simili: confidavamo nella signora Europa, e se puoi prenderti un aereo presentando solo la cara vecchia carta di identità (quella ancora con la foto, la filigrana e le bullette, che anche un negoziante di qua mi ha detto “Siete rimasti proprio indietro in Italia”), che vuoi che serva?
No, non va proprio così.
Secondo giorno di permanenza: per mantenere i contatti con le famiglie, i vari e gli eventuali, pensiamo bene di procurarci una internet key spagnola. Per fortuna a Santa Cruz ci sono tantissimi negozi di telefonia, ed è in uno di questi che siamo entrati.
-Excuse me, do you speak english?-
-No-
“Ecco, è finita..” penso io.
Non so quale santo ci ha aiutati, ma siamo riusciti a far capire alla cortesissima impiegata che ciò che cercavamo erano due sim card per i cellulari ed una internet key. Lei ci illustra l'illustrabile, le tariffe, persino i colori della key.
Compiliamo i moduli.
-Pasaporte?-
“Con la chiave, le passo, le porte..”
E armati di sorriso diplomatico mostriamo la carta di identità: diamine, ci abbiamo fatto il check-in, il mondo ha rischiato l'ennesimo volo aereo con noi sopra, che vuoi che sia un contratto telefonico?
-No, pasaporte o tarjeta de residencia..-
-Ah, vale, gracias..-
Momento di avvilimento profondo.
Avevamo intanto imparato le prime parole.
Fuori ragioniamo sul da farsi. E soprattutto ci poniamo la domanda fondamentale: ma che accidenti è la tarjeta de residencia?
La soluzione più rapida è la telefonata alla nostra mamma spagnola, la signora che ci ha affittato casa e ci ha dato tutte le dritte per sopravvivere. E appuriamo così di dover andare alla centrale di Polizia.
E allora l'illuminazione: anche in Italia si va alla Polizia, per fare il permesso di soggiorno!!
Momento di ringraziamento riconoscente alla bontà dell'universo.
Ricordandomi io di aver visto il giorno prima dall'auto una grossa scritta “Policia” un duecento metri più avanti, decidiamo di provare.
Ingresso in centrale e nuovo teatrino di spagnolo maccheronico: ci sentiamo dire di andare si alla Polizia, ma a quella centrale, perché ci eravamo rivolti all'equivalente dei VIGILI URBANI..
Polizia centrale dall'ALTRA PARTE della città.
E, tra l'altro, pioveva..
Cammina cammina ci troviamo dentro la centrale, dentro all'ufficio per il rilascio dei documenti per stranieri. Il nostro vocabolario contava ben dieci parole.
La persona che ci ha fatto le pratiche, di cui non conosco bene ordine e grado, è stata parecchio comprensiva, e nonostante le nostre a dir poco limitate capacità espressive, ha capito e compilato i moduli.
Ce li ha consegnati.
E ci ha dato due incarichi incomprensibili.
Ora, una cosa che non capirò mai dell'essere umano è la seguente: come mai, se non capiamo qualcosa, invece di dire “perdonami, sono fatto di marmo, non ho capito..” sorridiamo ebeti e poi, fuori della porta, sbattiamo la testa al muro?
Ecco, dopo diverse craniate allo spigolo dell'edificio e un giro dell'isolato alla ricerca di un fantomatico posto dove fare un fantomatico pagamento, un agente (status dedotto dalla presenza della divisa) compassionevole ci risolve l'arcano: pagamento in banca e fotocopia fronte-retro dei documenti.
Venti parole di spagnolo: eravamo a cavallo!
Pagamento pagato, documento fotocopiato, ci ripresentiamo all'ufficio, che, dopo nemmeno un'ora dal nostro primo ingresso, ce lo consegna..
Lui. Il NIE, che sta per “numero di identificazione degli stranieri” (si, tipo tatuaggio del cane..), prima tappa per il raggiungimento della tarjeta de residencia (carta di soggiorno) e poi, se tutto va bene, di domicilio e cittadinanza, tutti passi che contiamo di non fare..
Con quello ci si sono aperte un mare di porte: telefonia, autonoleggio..
E alla fine, tre considerazioni.
Numero uno: possibile che in Italia ci vogliano settimane per fare qualcosa che in Spagna abbiamo portato a casa in un'ora?
Numero due: d'ora in poi, quando vedrò gli immigrati in fila fuori della Questura, farò un minuto di rispettoso silenzio.
Numero tre: scommettiamo che, quando tornerò in Italia, la prima cosa che farò sarà il passaporto???
martedì 19 luglio 2011
Airport 2011
Come ben sanno tutti quelli che viaggiano o hanno viaggiato in arero, dopo la tragedia dell'undici settembre e l'avvento del "Dead Man Walking", "El Decaparecido", "il Latitante più Latitante del mondo", nonché Osama Bin Laden e la sua cricca di invasati, comporre un bagaglio a mano rischia di essere una vera e propria impresa.
Cioè, i fondamentali li sappiamo tutti: scansione minuziosa delle borse da passeggio, perquisizione virtuale delle cavità corporali, niente oggetti potenzialmente pericolosi nel bagaglio che si porta nell'abitacolo e soprattutto NIENTE LIQUIDI. Non sia mai che la tua bottiglietta d'acqua sigillata contenga qualche liquido potentemente corrosivo che tu hai introdotto badando poi di RICHIUDERLA CON LA FRESA DA BORSETTA..
Come avrete capito, ho ben avuto modo di verificare che la faccenda ha le sue perfidie, e anche le sue zone d'ombra.
Passo a spiegare.
Arriviamo, io e Topo, con grazia all'aeroporto di Venezia tirando le valige, quella monumentale e quella piccola, rigorosamente 50x30x20 e senza bottiglia d'acqua. Facciamo di buon grado la fila all'imbarco bagagli. E qui la prima contraddizione: imbarcano i nostri transatlantici senza battere ciglio, evidentemente sicuri che la temperatura glaciale della stiva avrebbe DISINNESCATO LE POTENZIALI BOMBE AD OROLOGERIA che questi potevano contenere, perché, meraviglia, non ci sono porte a raggi x: le valige passano dal nastro trasportatore a un carrello che un pazzo furioso guiderà a velocità insensata fino all'aereo. Ma al limite non ci faccio caso, e penso "Tanto meglio.."
Arriviamo al check in e comincia la comica: un video pseudo-terroristico ti intima di posare negli appositi contenitori qualsiasi oggetto controverso tu porti con te: anelli, orologi, pc, borse, cinture, targhetta sulla mutanda, capsula dentale, chiodo da ginocchio rotto e chi più ne ha più ne metta. Io mi limito ad appoggiare su richiesta il computer e a far passare borsa e valigia.
...
(suspence)
BIIIIIIP!!
Cazzo!
E comincia la danza: mi passano il metal detector portatile dappertutto, davanti, dietro, tra le dita dei piedi, dietro le orecchie.
Niente.
Scansionano la borsa.
Niente.
Scansionano il bagaglio a mano.
BIIIIIIP!!
Maledetta! Tu quoque!!
Una signorina con la divisa e l'aria da "attenti al cane" mi porta su un tavolo e mi fa aprire la valigia.
Fruga tutte le mie cose.
Apre il beauty del trucco. Io penso "stai a vedere che si attacca agli smalti.."
Apre il beauty del cosmetici.
Ecco! Lì il corpo del reato! Rischiosissimo! Letale!
IL BALSAMO AL MELONE DI LUSH IN BARATTOLO!!!
E i suoi complici! La maschera al tuorlo d'uovo e la crema per il viso Clinique, infida come tutti i francesi.
Chiedo con garbo: "Ma sono creme, io sapevo che soltanto i liquidi devono essere stivati.."
Lei mi risponde con altrettanto garbo: "No, sono proibiti i fluidi in generale oltre i 100ml. Deve buttare tutto, o se preferisce può imbarcare la valigia nella stiva."
Io non me lo sono fatta ripetere due volte: ho fatto nuovamente la fila, ho pagato 60 salatissimi euro, ho ripassato tutto al laser, ho sudato freddo finché non ho visto le mie valige sul nastro a Santa Cruz ma NO, IO I COSMETICI APPENA COMPRATI NON LI BUTTO.
Fin qui una classica storia di follia aeroportuale.
Il divertente è stato quando mi si è spezzata un'unghia sorvolando l'Atlantico, e con nonchalance ho tirato fuori dalla borsa le FORBICINE che porto sempre con me.
Il Topo esterrefatto: "Quelle come hai fatto ad imbarcarle????"
Io cado dal pero: "Non mi ha fermato nessuno! La borsa l'ho ripassata, non ha bippato!"
...
No comment
Signori che fate le guardie al check-in e che badate alla sicurezza di noi che voliamo, innanzitutto vi rivolgo un ringraziamento per la responsabilità che vi prendete e l'imbarazzo che dovete provare nel mettere le mani nella nostra roba. Poi un suggerimento: invertire l'ordine, scansionando prima il bagaglio a mano così da stivare in seguito il non-imbarcabile sembra brutto?
Infine una domanda: se una come me, al primo volo, mai stata in un terminal, ha imbucato un paio di forbicine a punta, sarà mica il caso di lasciare in pace le nostre bottigliette, che il superterrorista se vuole vi frega come gli pare??
Per fortuna il bagaglio è arrivato a destinazione sullo stesso aereo, tutto intero, salvo l'operaio-minchia del nastro trasportatore che ha sbattuto il trolley più piccolo sulla pista dell'aeroporto di Madrid con me che guardavo orripilata dal finestrino (la suddetta valigia è rosa fucsia: la riconoscerei fra mille).
L'avventura alle Canarie può cominciare!
mercoledì 8 dicembre 2010
Succede..
È un fatto. Tendiamo a vivere come se l'esistenza fosse qualcosa che abbiamo intorno senza toccarci eccessivamente, un po' come pesci in una boccia d'acqua: ci svegliamo la mattina, un mugugno di saluto alla persona che abbiamo accanto nel letto, i soliti malumori, problemi, malfunzionamenti del menage quotidiano. Una casa disordinata o da sistemare senza che ci siano i soldi, una relazione che dura da molti anni e che non ha più nemmeno l'aspetto della sorpresa. Le solite frasi dette e ridette, le incomprensioni, le discussioni stupide perché si è stanchi e si ha voglia di sfogarsi per quanto è complicato il mondo.
Tutte queste cose noi le pensiamo normali, e forse a ragione. Quante volte è successo a ognuno di noi di alzarsi già incazzati, e di guardare il compagno o la compagna come se fosse la ragione dei nostri mali, come se fosse colpa sua se la nostra vita non è quel paradiso che ci aspettavamo da adolescenti? A me tante volte, e di grazia che sto con una persona paziente.
Viviamo come se la vita non ci toccasse, come se il vero senso delle cose stesse in altro dai minuti che passano lenti sui nostri orologi.
E poi succede.
Il qualcosa che non avresti mai voluto. Il giorno che tutti noi speriamo di non vedere mai.
Stavolta a me mi ha solo sfiorato: venerdì, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il marito di un'amica carissima è morto in un incidente d'auto. La sua vita, quella dei figli, dei genitori, degli amici è cambiata per sempre nell'attimo di uno schianto.
Ma si muore così?
Si, nella maniera più stupida, insensata e semplice che si possa pensare.
E io, nelle lunghe ore passate a casa sua, a sentirla piangere e dire che non poteva farcela, ad aspettare che arrivasse il giorno dell'autopsia e infine il funerale, pensavo con orrore a quante volte queste due persone, sposate giovanissime, sposate da vent'anni, avranno litigato la mattina per la spazzatura non gettata, per il ritardo al lavoro, per un giorno di ferie non preso. Stupido, ma succede, e quando succede a me io resto lì, al tavolo della colazione oppure seduta sul mio lato del letto, a farla sbollire, a rendermi conto che ho esagerato, ad aspettare che arrivino le sei e mezzo e che il Topo apra la porta per guardarlo, scusarmi, sentirmi dire che non è successo niente e ricominciare, perché, anche se sembrava, non ho smesso di amarlo.
Solo che venerdì per la mia amica questo momento non è mai arrivato. Il loro tempo è finito prima.
Ed io, per loro, rimpiango tutte le volte che non ho detto al mio uomo che lo amo, che per me è la cosa più importante al mondo e che, se lo vedessi steso sul lettino di una camera mortuaria impazzirei. Rimpiango i malumori che ci hanno rovinato le giornate, le liti cretine per orgoglio. Rimpiango di non essere sempre capace di guardarlo con l'amore stupito con cui lui mi guarda.
E so che tutte le volte che questo ancora succederà, perché succede, io farò un torto alla mia amica senza che lei lo sappia, a lei e a tutti quelli che non hanno avuto tempo di dirsi un'ultima volta quello che davvero conta.
Tutte queste cose noi le pensiamo normali, e forse a ragione. Quante volte è successo a ognuno di noi di alzarsi già incazzati, e di guardare il compagno o la compagna come se fosse la ragione dei nostri mali, come se fosse colpa sua se la nostra vita non è quel paradiso che ci aspettavamo da adolescenti? A me tante volte, e di grazia che sto con una persona paziente.
Viviamo come se la vita non ci toccasse, come se il vero senso delle cose stesse in altro dai minuti che passano lenti sui nostri orologi.
E poi succede.
Il qualcosa che non avresti mai voluto. Il giorno che tutti noi speriamo di non vedere mai.
Stavolta a me mi ha solo sfiorato: venerdì, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il marito di un'amica carissima è morto in un incidente d'auto. La sua vita, quella dei figli, dei genitori, degli amici è cambiata per sempre nell'attimo di uno schianto.
Ma si muore così?
Si, nella maniera più stupida, insensata e semplice che si possa pensare.
E io, nelle lunghe ore passate a casa sua, a sentirla piangere e dire che non poteva farcela, ad aspettare che arrivasse il giorno dell'autopsia e infine il funerale, pensavo con orrore a quante volte queste due persone, sposate giovanissime, sposate da vent'anni, avranno litigato la mattina per la spazzatura non gettata, per il ritardo al lavoro, per un giorno di ferie non preso. Stupido, ma succede, e quando succede a me io resto lì, al tavolo della colazione oppure seduta sul mio lato del letto, a farla sbollire, a rendermi conto che ho esagerato, ad aspettare che arrivino le sei e mezzo e che il Topo apra la porta per guardarlo, scusarmi, sentirmi dire che non è successo niente e ricominciare, perché, anche se sembrava, non ho smesso di amarlo.
Solo che venerdì per la mia amica questo momento non è mai arrivato. Il loro tempo è finito prima.
Ed io, per loro, rimpiango tutte le volte che non ho detto al mio uomo che lo amo, che per me è la cosa più importante al mondo e che, se lo vedessi steso sul lettino di una camera mortuaria impazzirei. Rimpiango i malumori che ci hanno rovinato le giornate, le liti cretine per orgoglio. Rimpiango di non essere sempre capace di guardarlo con l'amore stupito con cui lui mi guarda.
E so che tutte le volte che questo ancora succederà, perché succede, io farò un torto alla mia amica senza che lei lo sappia, a lei e a tutti quelli che non hanno avuto tempo di dirsi un'ultima volta quello che davvero conta.
venerdì 22 ottobre 2010
Profondo disgusto
Ok, ok, smettete per un attimo di fare quello che state facendo.
Fermi, per favore. FERMI!!!
Qualcuno ha visto la prima pagina del "Giornale" di oggi?
Se non avete avuto il piacere ve la illustro io: titolo cubitale, I MANTENUTI DA BERLUSCONI; sotto le foto di Saviano, Zagrebelski, Scalfari, Benigni e gente di questa levatura. E sopra, più piccolo ma chiaramente leggibile, "I martiri del regime".
Prima di tutto un applauso per i geniali redattori del quotidiano: non deve essere stato facile ammettere, sia pure in modo implicito, che la cultura, l'informazione, l'intrattenimento, siano solo casse di risonanza del Premier.
E poi tanti complimenti per la tesi sostenuta. Certo deve essere impensabile per dei galoppini andare contro corrente, dimostrare libertà di pensiero in un sistema completamente foraggiato dal nemico. Sarebbe francamente più gentile e più carino continuare a dire che va tutto bene, anche se non ci saranno pensioni per i precari, l'immondizia sommerge Napoli (è necessario che io ricordi che era stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del premier?) e la televisione è tutta un culetto svolazzante.
A questi signori che si fregiano del titolo di giornalisti, cosa che, per inciso, comporterebbe anche una certa responsabilità, io dico no.
Dico che io mi sento un martire di regime, che non accetto di venire limitata nel diritto sacrosanto di vedere e leggere quello che mi pare, che la sospensione di programmi "estremi" come può essere "Annozero" o in misura minore "Che tempo che fa" e "Parla con me" danneggia tutta Italia, perché zittire qualunque tesi impoverisce l'intero discorso.
Dico che è una vergogna sbattere in prima pagina le facce di intellettuali illustri (andatevi a guardare chi è Gustavo Zagrebelski, e se smetterete di piangere sarete d'accordo con me) millantando un fair play ideologico che è roba da scuole elementari: certo, che disgraziati, è ovvio che costoro, affermati e famosi in tutti i campi, non fanno altro che mendicare attenzione contando le pulci in testa a Silviopoverino, senza avere il coraggio di sostenere l'impopolare tesi "va tutto bene". Dovrebbero: in fondo se è lui che paga bisogna come minimo mostrargli gratitudine.
Eh no, ragazzi. Silvietto non mi sta pagando un cazzo. Non paga la pensione di mio marito, precario, che deve ricorrere alla previdenza alternativa, non pagherà le scuole per i figli che avrò, non paga i servizi di cui non potrò usufruire perché stiamo scontando tutti una contrazione economica che esiste solo nella mente dei babau di sinistra.
E dico a tutti quelli che hanno la pazienza di leggermi di informarsi, spulciare su internet, magari registrarsi su Facebook e aderire alle pagine di informazione alternativa, che ti pubblicano in bacheca le notizie ogni volta che escono.
Io dico basta.
E ci aggiungo un "che schifo"..
Fermi, per favore. FERMI!!!
Qualcuno ha visto la prima pagina del "Giornale" di oggi?
Se non avete avuto il piacere ve la illustro io: titolo cubitale, I MANTENUTI DA BERLUSCONI; sotto le foto di Saviano, Zagrebelski, Scalfari, Benigni e gente di questa levatura. E sopra, più piccolo ma chiaramente leggibile, "I martiri del regime".
Prima di tutto un applauso per i geniali redattori del quotidiano: non deve essere stato facile ammettere, sia pure in modo implicito, che la cultura, l'informazione, l'intrattenimento, siano solo casse di risonanza del Premier.
E poi tanti complimenti per la tesi sostenuta. Certo deve essere impensabile per dei galoppini andare contro corrente, dimostrare libertà di pensiero in un sistema completamente foraggiato dal nemico. Sarebbe francamente più gentile e più carino continuare a dire che va tutto bene, anche se non ci saranno pensioni per i precari, l'immondizia sommerge Napoli (è necessario che io ricordi che era stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del premier?) e la televisione è tutta un culetto svolazzante.
A questi signori che si fregiano del titolo di giornalisti, cosa che, per inciso, comporterebbe anche una certa responsabilità, io dico no.
Dico che io mi sento un martire di regime, che non accetto di venire limitata nel diritto sacrosanto di vedere e leggere quello che mi pare, che la sospensione di programmi "estremi" come può essere "Annozero" o in misura minore "Che tempo che fa" e "Parla con me" danneggia tutta Italia, perché zittire qualunque tesi impoverisce l'intero discorso.
Dico che è una vergogna sbattere in prima pagina le facce di intellettuali illustri (andatevi a guardare chi è Gustavo Zagrebelski, e se smetterete di piangere sarete d'accordo con me) millantando un fair play ideologico che è roba da scuole elementari: certo, che disgraziati, è ovvio che costoro, affermati e famosi in tutti i campi, non fanno altro che mendicare attenzione contando le pulci in testa a Silviopoverino, senza avere il coraggio di sostenere l'impopolare tesi "va tutto bene". Dovrebbero: in fondo se è lui che paga bisogna come minimo mostrargli gratitudine.
Eh no, ragazzi. Silvietto non mi sta pagando un cazzo. Non paga la pensione di mio marito, precario, che deve ricorrere alla previdenza alternativa, non pagherà le scuole per i figli che avrò, non paga i servizi di cui non potrò usufruire perché stiamo scontando tutti una contrazione economica che esiste solo nella mente dei babau di sinistra.
E dico a tutti quelli che hanno la pazienza di leggermi di informarsi, spulciare su internet, magari registrarsi su Facebook e aderire alle pagine di informazione alternativa, che ti pubblicano in bacheca le notizie ogni volta che escono.
Io dico basta.
E ci aggiungo un "che schifo"..
sabato 25 settembre 2010
German contraddiction
Premessa: quest'estate, per un buffo scherzo della sorte, io e Topo ci siamo trovati in Germania, e più precisamente a Friburgo in Brisgovia (speriamo che si scriva così)..
Chi è capitato in Germania in macchina o in pullman saprà benissimo come autostrade e statali siano cosparse di simpatici cartelli gialli con la scritta “Ausfahrt” e una vistosa freccia. A quel punto ti chiedi che razza di città sia Ausfahrt, e quanto accidenti sia grande, e perché “tutte le strade portano a Roma” se in Germania tutte le frecce portano a Ausfahrt..
Perché “Ausfahrt” in tedesco sta per “uscita”: invece di indicare direttamente la città a cui l'uscita conduce, ti lasciano in balia di te stesso, ed eventualmente del tuo navigatore e dei segnali piantati dieci metri prima (e ormai inutili), ma ti segnalano bello chiaro che da lì puoi dire addio alle vie a rapido scorrimento ed abbandonarti ad un ovino vagare.
Ecco uno degli aspetti più belli e divertenti dei viaggi, e detto da me che vivo secondo la logica della lumaca (“fortunata, lumachina: sulla groppa hai la casina”) ha un che di cosmico: constatare e spesso sbattere la testa su tutti quegli scarti, aspetti, minuzie che costruiscono il “lost in translation” delle civiltà, quelle cose che tu trovi assurde ma che la persona di fronte a te, due gambe e due braccia e un idioma incomprensibile ai più, trova assolutamente normali.. Ovviamente divertenti a posteriori, quando riguardi le fotografie, che lì per lì t'ammazzeresti con le tue mani..
Per fare un altro esempio, se hai bisogno di una farmacia in Germania, passerai ore inutili a cercare una croce verde lampeggiante: quello che ti serve è un'anima pietosa che ti indichi le “A” rosse in carattere gotico su innumerevoli edifici, e ti dica che per l'appunto in tedesco farmacia si dice “Apotheke”.
Oppure ancora: io e il Topo ci siamo dannati per trovare dei miseri francobolli. In Italia li compri in qualunque tabaccheria, ma se ti avvicini ai gabbiotti-tabacchi agli incroci e domandi al prototipo della tabaccaia/giornalaia tedesca (biondo paglia, troppi anni e rughe e un assoluto rifiuto di ogni forma di lingua inglese) questa non saprà far altro che darti indicazioni sgangherate in un tedesco irto di sfumature dialettali. E poi per una botta di culo troverai i francobolli nella libreria della stazione.
A tavola le discrepanze aumentano, e senza un profondo senso d'adattabilità sei assolutamente finito: la pasta è riciclata come un accompagnamento del secondo piatto, un'interessante mezza via fra un'insalata e un filone di pane; il suddetto pane è potenzialmente fatto con tutto, dalla segale ai pinoli: lo devi rigorosamente imburrare e nel companatico l'affumicato è re. Le donne tedesche fanno da sole la marmellata in piccoli vasetti colorati, e fanno marmellate con tutto, pesche e zenzero, mele, bacche rosse del giardino.. Il risultato sono stati tre giorni di sperimentazione culinaria, superati brillantemente con un minimo di spirito d'avventura e senza incidenti gastrici, con mio profondo stupore..
Se sei italiano il divertimento tra l'altro aumenta: i prodotti provenienti dalla Toscana o dalla Calabria si sprecano, e in Germania la parola “Italia” è sinonimo di sano, biologico, pulito, bello; io stessa in altra occasione ho visto delle tedesche in gonnellina sedute sul marciapiede della stazione a Bologna che mangiavano allegramente fra piccioni e mozziconi di sigaretta. Come dire, brivido, orrore, raccapriccio.. Pensare “italiano=sano” quando noi soffochiamo in mezzo agli scarichi e alle polveri sottili? Da ribaltarsi dal ridere..
Per tacer poi delle città: quel sole che noi abbiamo in abbondanza e che guardiamo con malcelata ostilità da giugno a settembre loro lo sfruttano fino allo sfinimento, in una spasmodica ricerca di balconcini, finestroni, lucernari, ed è particolarmente gustoso vedere queste casette a punta, colorate ciascuna in modo diverso ma con un innato senso di eleganza e misura, animarsi di aperture e spazietti verdi, per la serie: chi c'ha il pane non c'ha i denti e chi c'ha i denti non c'ha il pane.. Ogni edificio, nelle città con una tradizione storica (cioè quasi tutte), porta scritto sulla facciata il nome della famiglia che l'ha fatta costruire assieme alla data della costruzione. Il che ha colpito profondamente me, cittadina di un paese che con la memoria ci pareggia le gambe zoppe del divano.
Detto francamente, tornare in un'Italia che in piena campagna colora le villette a schiera in due modi diversi (tipo giallo e rosa) secondo i gusti inconciliabili degli orgogliosi abitanti, che abbatte le case di mattoni indistruttibili per allestire un trionfo dei foratini, che relega il verde ai simboli di partito sulle facciate delle scuole e costruisce e cementifica come un'ossessa non è stato facile. E nonostante il gap culturale.
venerdì 24 settembre 2010
Venezia
Fra le case di Venezia c'è una magia particolare, un respiro che le percorre tutte, che dona un'identità definita ad ogni stucco, ad ogni intonaco, ad ogni trave ammuffita sotto un portico, a prescindere dalle mille storie dei mille e più abitanti lungo i secoli; nei vicoli stretti e nelle viuzze occhiute di mille finestre la città ti stringe in pugno e quasi ti soffoca, e poi all'improvviso ti lascia andare nell'aria e nel sole di un campiello, a chiederti cosa ti fosse accaduto fino a pochi istanti prima; a Venezia il blu ha le sfumature del lapislazzuli, il rosso si sfalda in mille toni diversi, chiari e scuri, luminosi e spenti; Venezia è la decorazione che timida fa capolino dal più semplice degli edifici o ostenta sé stessa nei palazzi del Canal Grande, è la città del silenzio e del rumore insieme, il silenzio delle vie secondarie senza le auto e poco più in là lo schiamazzo di mille turisti che la osservano rapiti. Venezia è il rumore dell'acqua, l'odore del mare morto, le scale di un ponte che attraversa un canale. Venezia è lo scintillio del vetro da poco nei negozi per turisti intorno alla stazione, e l'ammiccare dell'oro e dei diamanti nelle vetrine di piazza San Marco, dove un caffè costa come il pane di una settimana e ti vendono gioielli con la stessa noncurante semplicità delle sigarette.
A Venezia dietro ogni angolo si nasconde un quadro, e ti viene quasi voglia di comprarti un album, gli acquerelli e restare lì a dipingere per il tempo necessario a restituire intatta tutta quella bellezza, giusto quei due o tre anni che bastano allo scopo. A Venezia il negozio il lusso si nasconde nel più umido e buio dei vicoli, perché il legno annerito, sordido e squallido da qualunque altra parte, a Venezia assume un suo senso, e diventa parte di un tutto che della decadenza ha fatto una bandiera.
Ogni città ha un suo modo di parlarti: quelle piccole in provincia, né troppo grandi né troppo piccole, ti accolgono amorose, vedi il cielo e la strada è a tua misura; quelle grandi sono sempre diverse da sé stesse, molti piccoli centri in uno e ognuno parla un suo linguaggio.
La lingua di Venezia non ha eguali: ti sussurra lusinghe all'orecchio, ti racconta storie d'Oriente, di maschere e d'oro, di notti popolate da assassini e nebbia; ti parla d'amore e si permette di scherzarci su nell'ammiccare di una finestra al sole o nelle volute di un glicine abbracciato ad un portico.
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