Get Adobe Flash player

mercoledì 8 dicembre 2010

Succede..

È un fatto. Tendiamo a vivere come se l'esistenza fosse qualcosa che abbiamo intorno senza toccarci eccessivamente, un po' come pesci in una boccia d'acqua: ci svegliamo la mattina, un mugugno di saluto alla persona che abbiamo accanto nel letto, i soliti malumori, problemi, malfunzionamenti del menage quotidiano. Una casa disordinata o da sistemare senza che ci siano i soldi, una relazione che dura da molti anni e che non ha più nemmeno l'aspetto della sorpresa. Le solite frasi dette e ridette, le incomprensioni, le discussioni stupide perché si è stanchi e si ha voglia di sfogarsi per quanto è complicato il mondo.
Tutte queste cose noi le pensiamo normali, e forse a ragione. Quante volte è successo a ognuno di noi di alzarsi già incazzati, e di guardare il compagno o la compagna come se fosse la ragione dei nostri mali, come se fosse colpa sua se la nostra vita non è quel paradiso che ci aspettavamo da adolescenti? A me tante volte, e di grazia che sto con una persona paziente.
Viviamo come se la vita non ci toccasse, come se il vero senso delle cose stesse in altro dai minuti che passano lenti sui nostri orologi.
E poi succede.
Il qualcosa che non avresti mai voluto. Il giorno che tutti noi speriamo di non vedere mai.
Stavolta a me mi ha solo sfiorato: venerdì, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il marito di un'amica carissima è morto in un incidente d'auto. La sua vita, quella dei figli, dei genitori, degli amici è cambiata per sempre nell'attimo di uno schianto.
Ma si muore così?
Si, nella maniera più stupida, insensata e semplice che si possa pensare.
E io, nelle lunghe ore passate a casa sua, a sentirla piangere e dire che non poteva farcela, ad aspettare che arrivasse il giorno dell'autopsia e infine il funerale, pensavo con orrore a quante volte queste due persone, sposate giovanissime, sposate da vent'anni, avranno litigato la mattina per la spazzatura non gettata, per il ritardo al lavoro, per un giorno di ferie non preso. Stupido, ma succede, e quando succede a me io resto lì, al tavolo della colazione oppure seduta sul mio lato del letto, a farla sbollire, a rendermi conto che ho esagerato, ad aspettare che arrivino le sei e mezzo e che il Topo apra la porta per guardarlo, scusarmi, sentirmi dire che non è successo niente e ricominciare, perché, anche se sembrava, non ho smesso di amarlo.
Solo che venerdì per la mia amica questo momento non è mai arrivato. Il loro tempo è finito prima.
Ed io, per loro, rimpiango tutte le volte che non ho detto al mio uomo che lo amo, che per me è la cosa più importante al mondo e che, se lo vedessi steso sul lettino di una camera mortuaria impazzirei. Rimpiango i malumori che ci hanno rovinato le giornate, le liti cretine per orgoglio. Rimpiango di non essere sempre capace di guardarlo con l'amore stupito con cui lui mi guarda.
E so che tutte le volte che questo ancora succederà, perché succede, io farò un torto alla mia amica senza che lei lo sappia, a lei e a tutti quelli che non hanno avuto tempo di dirsi un'ultima volta quello che davvero conta.

venerdì 22 ottobre 2010

Profondo disgusto

Ok, ok, smettete per un attimo di fare quello che state facendo.
Fermi, per favore. FERMI!!!
Qualcuno ha visto la prima pagina del "Giornale" di oggi?
Se non avete avuto il piacere ve la illustro io: titolo cubitale, I MANTENUTI DA BERLUSCONI; sotto le foto di Saviano, Zagrebelski, Scalfari, Benigni e gente di questa levatura. E sopra, più piccolo ma chiaramente leggibile, "I martiri del regime".
Prima di tutto un applauso per i geniali redattori del quotidiano: non deve essere stato facile ammettere, sia pure in modo implicito, che la cultura, l'informazione, l'intrattenimento, siano solo casse di risonanza del Premier.
E poi tanti complimenti per la tesi sostenuta. Certo deve essere impensabile per dei galoppini andare contro corrente, dimostrare libertà di pensiero in un sistema completamente foraggiato dal nemico. Sarebbe francamente più gentile e più carino continuare a dire che va tutto bene, anche se non ci saranno pensioni per i precari, l'immondizia sommerge Napoli (è necessario che io ricordi che era stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del premier?) e la televisione è tutta un culetto svolazzante.
A questi signori che si fregiano del titolo di giornalisti, cosa che, per inciso, comporterebbe anche una certa responsabilità, io dico no.
Dico che io mi sento un martire di regime, che non accetto di venire limitata nel diritto sacrosanto di vedere e leggere quello che mi pare, che la sospensione di programmi "estremi" come può essere "Annozero" o in misura minore "Che tempo che fa" e "Parla con me" danneggia tutta Italia, perché zittire qualunque tesi impoverisce l'intero discorso.
Dico che è una vergogna sbattere in prima pagina le facce di intellettuali illustri (andatevi a guardare chi è Gustavo Zagrebelski, e se smetterete di piangere sarete d'accordo con me) millantando un fair play ideologico che è roba da scuole elementari: certo, che disgraziati, è ovvio che costoro, affermati e famosi in tutti i campi, non fanno altro che mendicare attenzione contando le pulci in testa a Silviopoverino, senza avere il coraggio di sostenere l'impopolare tesi "va tutto bene". Dovrebbero: in fondo se è lui che paga bisogna come minimo mostrargli gratitudine.
Eh no, ragazzi. Silvietto non mi sta pagando un cazzo. Non paga la pensione di mio marito, precario, che deve ricorrere alla previdenza alternativa, non pagherà le scuole per i figli che avrò, non paga i servizi di cui non potrò usufruire perché stiamo scontando tutti una contrazione economica che esiste solo nella mente dei babau di sinistra.
E dico a tutti quelli che hanno la pazienza di leggermi di informarsi, spulciare su internet, magari registrarsi su Facebook e aderire alle pagine di informazione alternativa, che ti pubblicano in bacheca le notizie ogni volta che escono.
Io dico basta.
E ci aggiungo un "che schifo"..

sabato 25 settembre 2010

German contraddiction

Premessa: quest'estate, per un buffo scherzo della sorte, io e Topo ci siamo trovati in Germania, e più precisamente a Friburgo in Brisgovia (speriamo che si scriva così)..
Chi è capitato in Germania in macchina o in pullman saprà benissimo come autostrade e statali siano cosparse di simpatici cartelli gialli con la scritta “Ausfahrt” e una vistosa freccia. A quel punto ti chiedi che razza di città sia Ausfahrt, e quanto accidenti sia grande, e perché “tutte le strade portano a Roma” se in Germania tutte le frecce portano a Ausfahrt..
Si, a questo punto chi conosce un minimo di tedesco si sta sganasciando.
Perché “Ausfahrt” in tedesco sta per “uscita”: invece di indicare direttamente la città a cui l'uscita conduce, ti lasciano in balia di te stesso, ed eventualmente del tuo navigatore e dei segnali piantati dieci metri prima (e ormai inutili), ma ti segnalano bello chiaro che da lì puoi dire addio alle vie a rapido scorrimento ed abbandonarti ad un ovino vagare.
Ecco uno degli aspetti più belli e divertenti dei viaggi, e detto da me che vivo secondo la logica della lumaca (“fortunata, lumachina: sulla groppa hai la casina”) ha un che di cosmico: constatare e spesso sbattere la testa su tutti quegli scarti, aspetti, minuzie che costruiscono il “lost in translation” delle civiltà, quelle cose che tu trovi assurde ma che la persona di fronte a te, due gambe e due braccia e un idioma incomprensibile ai più, trova assolutamente normali.. Ovviamente divertenti a posteriori, quando riguardi le fotografie, che lì per lì t'ammazzeresti con le tue mani..
Per fare un altro esempio, se hai bisogno di una farmacia in Germania, passerai ore inutili a cercare una croce verde lampeggiante: quello che ti serve è un'anima pietosa che ti indichi le “A” rosse in carattere gotico su innumerevoli edifici, e ti dica che per l'appunto in tedesco farmacia si dice “Apotheke”.
Oppure ancora: io e il Topo ci siamo dannati per trovare dei miseri francobolli. In Italia li compri in qualunque tabaccheria, ma se ti avvicini ai gabbiotti-tabacchi agli incroci e domandi al prototipo della tabaccaia/giornalaia tedesca (biondo paglia, troppi anni e rughe e un assoluto rifiuto di ogni forma di lingua inglese) questa non saprà far altro che darti indicazioni sgangherate in un tedesco irto di sfumature dialettali. E poi per una botta di culo troverai i francobolli nella libreria della stazione.
A tavola le discrepanze aumentano, e senza un profondo senso d'adattabilità sei assolutamente finito: la pasta è riciclata come un accompagnamento del secondo piatto, un'interessante mezza via fra un'insalata e un filone di pane; il suddetto pane è potenzialmente fatto con tutto, dalla segale ai pinoli: lo devi rigorosamente imburrare e nel companatico l'affumicato è re. Le donne tedesche fanno da sole la marmellata in piccoli vasetti colorati, e fanno marmellate con tutto, pesche e zenzero, mele, bacche rosse del giardino.. Il risultato sono stati tre giorni di sperimentazione culinaria, superati brillantemente con un minimo di spirito d'avventura e senza incidenti gastrici, con mio profondo stupore..
Se sei italiano il divertimento tra l'altro aumenta: i prodotti provenienti dalla Toscana o dalla Calabria si sprecano, e in Germania la parola “Italia” è sinonimo di sano, biologico, pulito, bello; io stessa in altra occasione ho visto delle tedesche in gonnellina sedute sul marciapiede della stazione a Bologna che mangiavano allegramente fra piccioni e mozziconi di sigaretta. Come dire, brivido, orrore, raccapriccio.. Pensare “italiano=sano” quando noi soffochiamo in mezzo agli scarichi e alle polveri sottili? Da ribaltarsi dal ridere..
Per tacer poi delle città: quel sole che noi abbiamo in abbondanza e che guardiamo con malcelata ostilità da giugno a settembre loro lo sfruttano fino allo sfinimento, in una spasmodica ricerca di balconcini, finestroni, lucernari, ed è particolarmente gustoso vedere queste casette a punta, colorate ciascuna in modo diverso ma con un innato senso di eleganza e misura, animarsi di aperture e spazietti verdi, per la serie: chi c'ha il pane non c'ha i denti e chi c'ha i denti non c'ha il pane.. Ogni edificio, nelle città con una tradizione storica (cioè quasi tutte), porta scritto sulla facciata il nome della famiglia che l'ha fatta costruire assieme alla data della costruzione. Il che ha colpito profondamente me, cittadina di un paese che con la memoria ci pareggia le gambe zoppe del divano.
Detto francamente, tornare in un'Italia che in piena campagna colora le villette a schiera in due modi diversi (tipo giallo e rosa) secondo i gusti inconciliabili degli orgogliosi abitanti, che abbatte le case di mattoni indistruttibili per allestire un trionfo dei foratini, che relega il verde ai simboli di partito sulle facciate delle scuole e costruisce e cementifica come un'ossessa non è stato facile. E nonostante il gap culturale.

venerdì 24 settembre 2010

Venezia

Fra le case di Venezia c'è una magia particolare, un respiro che le percorre tutte, che dona un'identità definita ad ogni stucco, ad ogni intonaco, ad ogni trave ammuffita sotto un portico, a prescindere dalle mille storie dei mille e più abitanti lungo i secoli; nei vicoli stretti e nelle viuzze occhiute di mille finestre la città ti stringe in pugno e quasi ti soffoca, e poi all'improvviso ti lascia andare nell'aria e nel sole di un campiello, a chiederti cosa ti fosse accaduto fino a pochi istanti prima; a Venezia il blu ha le sfumature del lapislazzuli, il rosso si sfalda in mille toni diversi, chiari e scuri, luminosi e spenti; Venezia è la decorazione che timida fa capolino dal più semplice degli edifici  o ostenta sé stessa nei palazzi del Canal Grande, è la città del silenzio e del rumore insieme, il silenzio delle vie secondarie senza le auto e poco più in là lo schiamazzo di mille turisti che la osservano rapiti. Venezia è il rumore dell'acqua, l'odore del mare morto, le scale di un ponte che attraversa un canale. Venezia è lo scintillio del vetro da poco nei negozi per turisti intorno alla stazione, e l'ammiccare dell'oro e dei diamanti nelle vetrine di piazza San Marco, dove un caffè costa come il pane di una settimana e ti vendono gioielli con la stessa noncurante semplicità delle sigarette.
A Venezia dietro ogni angolo si nasconde un quadro, e ti viene quasi voglia di comprarti un album, gli acquerelli e restare lì a dipingere per il tempo necessario a restituire intatta tutta quella bellezza, giusto quei due o tre anni che bastano allo scopo. A Venezia il negozio il lusso si nasconde nel più umido e buio dei vicoli, perché il legno annerito, sordido e squallido da qualunque altra parte, a Venezia assume un suo senso, e diventa parte di un tutto che della decadenza ha fatto una bandiera.
Ogni città ha un suo modo di parlarti: quelle piccole in provincia, né troppo grandi né troppo piccole, ti accolgono amorose, vedi il cielo e la strada è a tua misura; quelle grandi sono sempre diverse da sé stesse, molti piccoli centri in uno e ognuno parla un suo linguaggio.
La lingua di Venezia non ha eguali: ti sussurra lusinghe all'orecchio, ti racconta storie d'Oriente, di maschere e d'oro, di notti popolate da assassini e nebbia; ti parla d'amore e si permette di scherzarci su nell'ammiccare di una finestra al sole o nelle volute di un glicine abbracciato ad un portico.

venerdì 27 agosto 2010

Telecamere

Dopo una lunga sessione di vacanza (in realtà quest'estate non ho fatto molto più che dormire..) Parliamone torna in tutta la sua magnificenza..
L'altra notte, nella mia piccola ridente cittadina umbra, è successa una tragedia, perché un diciannovenne che si getta da una rupe non può definirsi altrimenti; tralascio tutte le possibili variazioni sul tema "giovani e mancata educazione all'esistenza" perché sarebbe un suicidio degno di un post a parte.
A colpirmi è stato il commento che l'Augusta ha fatto alla cosa: "Se su quel tratto della rupe ci fossero delle telecamere non sarebbe un mistero se questo poveraccio si è buttato o l'hanno spinto.. Che tanto, a noi che ci passeggiamo sotto che fastidio darebbe una telecamera?"
Purtroppo tanto fastidio.
Viviamo in un mondo in cui la privacy non è più il diritto di veder tutelata la propria vita privata dagli occhi rapaci del resto del mondo (che tanto, tra facebook, youtube e via discorrendo, di non essere visti non frega più niente a nessuno), ma il tentativo di difendere le proprie malefatte, quelle che no, non possono proprio essere giustificate, da chi potrebbe vedere, giudicare e magari schifarsi. Viviamo la privacy come il diritto di fare quello che ci pare senza incorrere nel controllo sociale che, volenti o nolenti, è una prerogativa dell'uomo, come la sete o l'amore per la pizza..
E questa spasmodica ricerca di ombra per nascondere le pieghe più schifose dell'essere ha un risvolto che mi preoccupa ancora di più: denota la tendenza di questa nostra epoca a prendere l'illecito per qualcosa di bello che non si può fare, piuttosto che qualcosa di sfavorevole per il consesso umano che viene ragionevolmente vietato.
E ovviamente qui non penso più tanto al povero ragazzo morto suicida poco lontano da casa mia, ma a tante facce illustri e nomi noti che si nascondono dietro un dito e invocano il diritto a farlo.
Questi signori hanno tutto l'interesse a una legislazione sulla privacy che riduce al minimo la possibilità (nostra) di vedere e farci un'idea, credono che il furto, la corruzione, lo sfruttamento della prostituzione in tutte le sue forme più o meno sessuali sia un vantaggio che uno Stato cattivo (potrei dire comunista ma sarebbe troppo ovvio) ha vietato loro, lavando il cervello alle povere stupide formiche che non comprenderebbero la portata rivoluzionaria dei piaceri illeciti. Cosicché le formichine, da quelle poche briciole che cadono sulle loro testoline, succhiano un messaggio, che va bene tutto, che nessuno ha diritto di giudicare quel che fai, che il divieto umano ragionevole in realtà è una diga per i cretini.
Finché ti accorgi un giorno che non ci hai capito una mazza e per la disperazione di un mondo che non ti da appigli fai un salto di trecento metri.
Signori, io l'ho capito perché non volete telecamere, giornali, informazione corretta, crescita intellettuale, senso critico..
Perché in quel caso capiremmo quanto fate schifo..

domenica 1 agosto 2010

Reflusso.. Dannato reflusso..

Io soffro di reflusso gastro-esofageo.
E sul binario uno è partito lo "'sti cazzi" da Anagni.
Invece no! Perché va raccontata!
L'altro pomeriggio ero in cucina che preparavo l'insalata di riso. Mangio uno yogurt tanto per gradire, tempo dieci minuti, improvvisamente, mi fa male la gola. Tipico segno dell'avvenuto reflusso. Primi moccoli lanciati al vento. Vabbé.
Mi pippo di Tachipirina e aspetto fiduciosa. Il giorno dopo ancora molto fastidio alla gola, ma niente più di quello. So' mezza rincoglionita ma mi accontento. Fino alle undici di sera, quando il naso, bontà sua, comincia a piangere. Altra sessione di moccoli.
Sabato mattina. Ho un'idea: terme! Se uno ci va a fare inalazioni e compagnia bella qualche giovamento lo porteranno anche alle mie mucose depresse..
Non l'avessi mai fatto..
La mistura salsobromoiodica ha sciolto l'inverosimile dalle mie fosse nasali disastrate: è da ieri sera che respiro a bocca aperta come una carpa, i miei occhi sono acquosi e spenti (come una carpa), consumo sei fazzoletti l'ora e sembra che una filarmonica stia provando Wagner nella mia fronte. Ho tirato talmente tanti moccoli che sull'armadio hanno formato una comunità autogestita..
Ora: datosi che il reflusso è un disturbo assai comune (esiste anche il sito www.reflusso.net) potreste dirmi se succede anche a qualcun altro di innescare una spirale autodistruttiva così sofisticata?
No, almeno un disgraziato si regola..

venerdì 30 luglio 2010

Carmina freak show

Se vai in Germania per cantare una cosa come i Carmina Burana, lo fai con delle aspettative: presumi che i tedeschi vadano piuttosto orgogliosi del loro prodotto musicale più famoso, apparte Wagner; ti prepari mentalmente con un atteggiamento austero e rispettoso, anche se i testi dei vari canti tutto sono tranne che morigerati; ti aspetti che gli autoctoni pretendano da te una teutonica dignità.
Pensi insomma che sia una cosa seria.
Lo scorso fine settimana io e il Topo eravamo in una amena cittadina della Germania meridionale col nostro coro per partecipare ad una esecuzione dei suddetti Carmina insieme a spagnoli e iraniani, in gemellaggio col coro della suddetta cittadina. Tale esecuzione avrebbe concluso un festival musicale che appariva, ed era, molto significativo per la città, nonché fonte di una notevole mobilitazione popolare, con biglietti che costavano 35 sacchi per i posti di platea, tanto per rendere un'idea della situazione.
Ora, questa è stata la cronaca della faccenda: intanto la location approntata per il tutto era un gigantesco tendone da circo rosso pomodoro; e tu pensi "ma guarda che geni, questi germanicoli, niente auditorium abbastanza grande ed ecco che loro te ne gonfiano uno come un canotto". Tralasciamo il fatto che per raggiungere il tendone abbiamo dovuto attraversare in navetta due chilometri buoni di campi di fieno e recinti di cavalli&struzzi: già da quello avremmo dovuto capire quale sarebbe stato il tenore della cosa, ma noi eravamo ancora ottimisti..
Iniziano le prove: immaginatevi un coro di quattrocento persone e un'orchestra di ottanta più strumenti e percussioni su un palco standard da concerto. Se l'immagine nella vostra testa è simile a un pollaio ci siete quasi: niente quinte dove poter sostare in attesa, scalette pericolanti che se porti i tacchi sono un pericolo mortale, e un organizzatore che parla venti minuti in tedesco e tre secondi in inglese, e tu lo capisci che c'è qualcosa che non torna. Le sezioni del coro sono state stipate in angolini d'erba secca attigui all'esterno del tendone, sotto il sole e con braccialetti colorati lasciapassare terribilmente somiglianti a quelli che i volontari di Greenpeace mettono alle folaghe per tracciarne le migrazioni. Anche la prova è andata.


 Per il concerto era prevista una fase introduttiva in cui ognuno dei cori ospiti avrebbe dovuto presentarsi con un paio di pezzi: roba da dieci minuti, dici tu. Ecco lo svolgimento della serata:
- il primo a salire sul palco è un pazzo che per vivere fa l'attore, accompagnato da un paio di disneyane orecchie e da un gruppo di musica popolare iraniana: costui si mette a recitare un qualcosa di non meglio definito in tedesco mentre la band di Alì Babà si prodiga in un sottofondo orientaleggiante. Il risultato è stato assai simile a uno di quei reportage di raitre sulla guerra in Bosnia, col poveraccio che racconta di quando aveva ventisei pecore e le enumera tutte per nome con la musichina di sottofondo.
- al numero due salgono sul palco tre ragazzini di circa sedici anni che esibiscono la loro abilità ritmica armati di batteria e xilofono; voci di corridoio confermano che costoro fossero in rappresentanza di una scuola che finanzia i ragazzi dotati, e che per l'appunto stessero mostrando la loro dotazione. Noi, sul palco come cretini a fare da scenografia.
- al terzo posto sale un simpatico cantante folclorico tedesco con tanto di camorra, che per chi non lo sapesse trattasi di enorme tamburo che è possibile suonare con tutte le dita producendo una gamma singolare di effetti ritmici. Le rotule dei coristi si aggiungono al coro per mostrare il loro disappunto.
- finalmente, dopo un'ora e venti di attesa esposti al pubblico ludibrio, invece della donna cannone entriamo in azione noi: tre cori, due pezzi ciascuno per un totale di venti minuti di spettacolo. E tutti pensano "Grazie, Dio: adesso si comincia"
E invece no.
- con un repentino colpo di coda salgono sul palco almeno quattro pezzi grossi (ovviamente esprimentisi in tedesco, e se dovessi dire di chi accidenti si trattava mi troverei un po' spaesata), i tre ragazzini percussionisti e l'orecchione di prima, che mettono amorevolmente in scena una premiazione, i giovani per la loro dotatezza musicale, l'orecchione per.. per.. per.. Si, insomma finisce che Dumbo resta sul palco: prima chiama i soliti amichetti arabi per riproporre il giochino di prima, sottofondo con lettura amena in tedesco; poi accoglie un suo caro amico e la sua fisarmonica per un pot pourri di canzoni francesi stile Gilbert Becaud: il pubblico è in delirio.
Intervallo.
Finalmente fanno salire tutto l'organico dei carmina, l'orchestra e le quattro sezioni del coro che si dispongono sul palco ordinatamente secondo la linea "machecazzocifaccioqui".
Una pensa: "Cominciamo".
E invece ancora no!
Salgono sul palco in cinque: enorme pistolotto autocelebrativo tedesco di conclusione del festival, parla il capo della baracca, il ministro dell'educazione e anche un tale dal parlamento europeo (forse l'usciere). Attorno a me soprani senza scarpe seduti a terra in evidente prostrazione psicologica. Solo un quarto del coro capisce quel che viene detto.
Come se non bastasse, chiamano sul palco lui, il pezzo forte! Nonnino novantenne pippato in testa dai tempi di Woodstock con clarinetto: uno che ai suoi tempi doveva essere famoso ma che adesso suona grazie all'asma e quando non lo usano lo rimettono nella naftalina. Costui alita tre pallide note asfittiche nel clarinetto, inudibili nonostante l'amplificazione: ovazione generale! Tripudio! Mutande e reggipetti lanciati in aria dall'entusiasmo!
E finalmente, dopo 2 ORE E MEZZO di attesa, in piedi senza uno straccio di appoggio, il direttore, faccia da birra&patata, con sussiego sale sul palco e si prepara all'attacco.
E solo perché la donna barbuta e l'uomo che mangia i chiodi erano rimasti bloccati nel traffico..