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sabato 25 settembre 2010

German contraddiction

Premessa: quest'estate, per un buffo scherzo della sorte, io e Topo ci siamo trovati in Germania, e più precisamente a Friburgo in Brisgovia (speriamo che si scriva così)..
Chi è capitato in Germania in macchina o in pullman saprà benissimo come autostrade e statali siano cosparse di simpatici cartelli gialli con la scritta “Ausfahrt” e una vistosa freccia. A quel punto ti chiedi che razza di città sia Ausfahrt, e quanto accidenti sia grande, e perché “tutte le strade portano a Roma” se in Germania tutte le frecce portano a Ausfahrt..
Si, a questo punto chi conosce un minimo di tedesco si sta sganasciando.
Perché “Ausfahrt” in tedesco sta per “uscita”: invece di indicare direttamente la città a cui l'uscita conduce, ti lasciano in balia di te stesso, ed eventualmente del tuo navigatore e dei segnali piantati dieci metri prima (e ormai inutili), ma ti segnalano bello chiaro che da lì puoi dire addio alle vie a rapido scorrimento ed abbandonarti ad un ovino vagare.
Ecco uno degli aspetti più belli e divertenti dei viaggi, e detto da me che vivo secondo la logica della lumaca (“fortunata, lumachina: sulla groppa hai la casina”) ha un che di cosmico: constatare e spesso sbattere la testa su tutti quegli scarti, aspetti, minuzie che costruiscono il “lost in translation” delle civiltà, quelle cose che tu trovi assurde ma che la persona di fronte a te, due gambe e due braccia e un idioma incomprensibile ai più, trova assolutamente normali.. Ovviamente divertenti a posteriori, quando riguardi le fotografie, che lì per lì t'ammazzeresti con le tue mani..
Per fare un altro esempio, se hai bisogno di una farmacia in Germania, passerai ore inutili a cercare una croce verde lampeggiante: quello che ti serve è un'anima pietosa che ti indichi le “A” rosse in carattere gotico su innumerevoli edifici, e ti dica che per l'appunto in tedesco farmacia si dice “Apotheke”.
Oppure ancora: io e il Topo ci siamo dannati per trovare dei miseri francobolli. In Italia li compri in qualunque tabaccheria, ma se ti avvicini ai gabbiotti-tabacchi agli incroci e domandi al prototipo della tabaccaia/giornalaia tedesca (biondo paglia, troppi anni e rughe e un assoluto rifiuto di ogni forma di lingua inglese) questa non saprà far altro che darti indicazioni sgangherate in un tedesco irto di sfumature dialettali. E poi per una botta di culo troverai i francobolli nella libreria della stazione.
A tavola le discrepanze aumentano, e senza un profondo senso d'adattabilità sei assolutamente finito: la pasta è riciclata come un accompagnamento del secondo piatto, un'interessante mezza via fra un'insalata e un filone di pane; il suddetto pane è potenzialmente fatto con tutto, dalla segale ai pinoli: lo devi rigorosamente imburrare e nel companatico l'affumicato è re. Le donne tedesche fanno da sole la marmellata in piccoli vasetti colorati, e fanno marmellate con tutto, pesche e zenzero, mele, bacche rosse del giardino.. Il risultato sono stati tre giorni di sperimentazione culinaria, superati brillantemente con un minimo di spirito d'avventura e senza incidenti gastrici, con mio profondo stupore..
Se sei italiano il divertimento tra l'altro aumenta: i prodotti provenienti dalla Toscana o dalla Calabria si sprecano, e in Germania la parola “Italia” è sinonimo di sano, biologico, pulito, bello; io stessa in altra occasione ho visto delle tedesche in gonnellina sedute sul marciapiede della stazione a Bologna che mangiavano allegramente fra piccioni e mozziconi di sigaretta. Come dire, brivido, orrore, raccapriccio.. Pensare “italiano=sano” quando noi soffochiamo in mezzo agli scarichi e alle polveri sottili? Da ribaltarsi dal ridere..
Per tacer poi delle città: quel sole che noi abbiamo in abbondanza e che guardiamo con malcelata ostilità da giugno a settembre loro lo sfruttano fino allo sfinimento, in una spasmodica ricerca di balconcini, finestroni, lucernari, ed è particolarmente gustoso vedere queste casette a punta, colorate ciascuna in modo diverso ma con un innato senso di eleganza e misura, animarsi di aperture e spazietti verdi, per la serie: chi c'ha il pane non c'ha i denti e chi c'ha i denti non c'ha il pane.. Ogni edificio, nelle città con una tradizione storica (cioè quasi tutte), porta scritto sulla facciata il nome della famiglia che l'ha fatta costruire assieme alla data della costruzione. Il che ha colpito profondamente me, cittadina di un paese che con la memoria ci pareggia le gambe zoppe del divano.
Detto francamente, tornare in un'Italia che in piena campagna colora le villette a schiera in due modi diversi (tipo giallo e rosa) secondo i gusti inconciliabili degli orgogliosi abitanti, che abbatte le case di mattoni indistruttibili per allestire un trionfo dei foratini, che relega il verde ai simboli di partito sulle facciate delle scuole e costruisce e cementifica come un'ossessa non è stato facile. E nonostante il gap culturale.

venerdì 24 settembre 2010

Venezia

Fra le case di Venezia c'è una magia particolare, un respiro che le percorre tutte, che dona un'identità definita ad ogni stucco, ad ogni intonaco, ad ogni trave ammuffita sotto un portico, a prescindere dalle mille storie dei mille e più abitanti lungo i secoli; nei vicoli stretti e nelle viuzze occhiute di mille finestre la città ti stringe in pugno e quasi ti soffoca, e poi all'improvviso ti lascia andare nell'aria e nel sole di un campiello, a chiederti cosa ti fosse accaduto fino a pochi istanti prima; a Venezia il blu ha le sfumature del lapislazzuli, il rosso si sfalda in mille toni diversi, chiari e scuri, luminosi e spenti; Venezia è la decorazione che timida fa capolino dal più semplice degli edifici  o ostenta sé stessa nei palazzi del Canal Grande, è la città del silenzio e del rumore insieme, il silenzio delle vie secondarie senza le auto e poco più in là lo schiamazzo di mille turisti che la osservano rapiti. Venezia è il rumore dell'acqua, l'odore del mare morto, le scale di un ponte che attraversa un canale. Venezia è lo scintillio del vetro da poco nei negozi per turisti intorno alla stazione, e l'ammiccare dell'oro e dei diamanti nelle vetrine di piazza San Marco, dove un caffè costa come il pane di una settimana e ti vendono gioielli con la stessa noncurante semplicità delle sigarette.
A Venezia dietro ogni angolo si nasconde un quadro, e ti viene quasi voglia di comprarti un album, gli acquerelli e restare lì a dipingere per il tempo necessario a restituire intatta tutta quella bellezza, giusto quei due o tre anni che bastano allo scopo. A Venezia il negozio il lusso si nasconde nel più umido e buio dei vicoli, perché il legno annerito, sordido e squallido da qualunque altra parte, a Venezia assume un suo senso, e diventa parte di un tutto che della decadenza ha fatto una bandiera.
Ogni città ha un suo modo di parlarti: quelle piccole in provincia, né troppo grandi né troppo piccole, ti accolgono amorose, vedi il cielo e la strada è a tua misura; quelle grandi sono sempre diverse da sé stesse, molti piccoli centri in uno e ognuno parla un suo linguaggio.
La lingua di Venezia non ha eguali: ti sussurra lusinghe all'orecchio, ti racconta storie d'Oriente, di maschere e d'oro, di notti popolate da assassini e nebbia; ti parla d'amore e si permette di scherzarci su nell'ammiccare di una finestra al sole o nelle volute di un glicine abbracciato ad un portico.